Saluto ai pellegrini presenti nella Basilica
Vaticana:
Cari fratelli e
sorelle!
Sono lieto di
accogliervi in questa Basilica e rivolgo il mio cordiale benvenuto a
questa festosa vostra assemblea, composta prevalentemente da giovani
studenti. Saluto in particolare i rappresentanti dei Gruppi
Folkloristici del Friuli-Venezia Giulia, gli studenti della città di
Paola e gli alunni di vari Istituti scolastici provenienti da diverse
Regioni d’Italia. Cari amici, la scuola oggi affronta notevoli sfide che
emergono nel campo dell’educazione delle nuove generazioni. Per questo
motivo la scuola non può essere soltanto luogo di apprendimento
nozionistico, ma è chiamata ad offrire agli alunni l’opportunità di
approfondire validi messaggi di carattere culturale, sociale, etico e
religioso. Chi insegna non può non percepire anche il risvolto morale di
ogni umano sapere, perché l’uomo conosce per agire e l’agire è frutto
della sua conoscenza. Nell’odierna società, segnata da rapidi e profondi
mutamenti voi, cari giovani che volete seguire Cristo, abbiate cura di
aggiornare la vostra formazione spirituale, cercando di comprendere
sempre più i contenuti della fede. Potrete così essere pronti a
rispondere senza esitazioni a chi vi domanda ragione della vostra
adesione al Signore. Con tali voti invoco su ciascuno di voi
l’abbondanza dei doni dello Spirito e vi auguro di prepararvi bene alle
prossime Feste pasquali.
* * *
Cari fratelli e
sorelle,
oggi vorrei parlare di
due scrittori ecclesiastici, Boezio e Cassiodoro, che vissero in anni
tra i più tribolati dell’Occidente cristiano e, in particolare, della
penisola italiana. Odoacre, re degli Eruli, un'etnia germanica, si era
ribellato, ponendo termine all’impero romano d’Occidente (a. 476), ma
aveva poi ben presto dovuto soccombere agli Ostrogoti di Teodorico, che
per alcuni decenni si assicurarono il controllo della penisola italiana.
Boezio, nato a Roma nel 480 circa dalla nobile stirpe degli Anicii,
entrò ancor giovane nella vita pubblica, raggiungendo già a venticinque
anni la carica di senatore. Fedele alla tradizione della sua famiglia,
si impegnò in politica convinto che si potessero temperare insieme le
linee portanti della società romana con i valori dei popoli nuovi. E in
questo nuovo tempo dell'incontro delle culture considerò come sua
propria missione quella di riconciliare e di mettere insieme queste due
culture, la classica romana con la nascente del popolo ostrogoto. Fu
così attivo in politica anche sotto Teodorico, che nei primi tempi lo
stimava molto. Nonostante questa attività pubblica, Boezio non trascurò
gli studi, dedicandosi in particolare all’approfondimento di temi di
ordine filosofico-religioso. Ma scrisse anche manuali di aritmetica, di
geometria, di musica, di astronomia: tutto con l'intenzione di
trasmettere alle nuove generazioni, ai nuovi tempi, la grande cultura
greco-romana. In questo ambito, cioè nell’impegno di promuovere
l'incontro delle culture, utilizzò le categorie della filosofia greca
per proporre la fede cristiana, anche qui in ricerca di una sintesi fra
il patrimonio ellenistico-romano e il messaggio evangelico. Proprio per
questo, Boezio è stato qualificato come l’ultimo rappresentante della
cultura romana antica e il primo degli intellettuali medievali.
La sua opera certamente
più nota è il De consolatione philosophiae, che egli compose in
carcere per dare un senso alla sua ingiusta detenzione. Era stato
infatti accusato di complotto contro il re Teodorico per aver assunto la
difesa in giudizio di un amico, il senatore Albino. Ma questo era un
pretesto: in realtà Teodorico, ariano e barbaro, sospettava che Boezio
avesse simpatie per l’imperatore bizantino Giustiniano. Di fatto,
processato e condannato a morte, fu giustiziato il 23 ottobre del 524, a
soli 44 anni. Proprio per questa sua drammatica fine, egli può parlare
dall’interno della propria esperienza anche all’uomo contemporaneo e
soprattutto alle tantissime persone che subiscono la sua stessa sorte a
causa dell’ingiustizia presente in tanta parte della ‘giustizia umana’.
In quest’opera, nel carcere cerca la consolazione, cerca la luce, cerca
la saggezza. E dice di aver saputo distinguere, proprio in questa
situazione, tra i beni apparenti – nel carcere essi scompaiono – e i
beni veri, come come l’autentica amicizia che anche nel carcere non
scompaiono. Il bene più alto è Dio: Boezio imparò – e lo insegna a noi –
a non cadere nel fatalismo, che spegne la speranza. Egli ci insegna che
non governa il fato, governa la Provvidenza ed essa ha un volto. Con la
Provvidenza si può parlare, perché la Provvidenza è Dio. Così, anche nel
carcere gli rimane la possibilità della preghiera, del dialogo con Colui
che ci salva. Nello stesso tempo, anche in questa situazione egli
conserva il senso della bellezza della cultura e richiama l’insegnamento
dei grandi filosofi antichi greci e romani come Platone, Aristotile –
aveva cominciato a tradurre questi greci in latino - Cicerone, Seneca,
ed anche poeti come Tibullo e Virgilio.
La filosofia, nel senso
della ricerca della vera saggezza, è secondo Boezio la vera medicina
dell’anima (lib. I). D’altra parte, l’uomo può sperimentare l’autentica
felicità unicamente nella propria interiorità (lib. II). Per questo,
Boezio riesce a trovare un senso nel pensare alla propria tragedia
personale alla luce di un testo sapienziale dell’Antico Testamento (Sap
7,30-8,1) che egli cita: “Contro la sapienza la malvagità non può
prevalere. Essa si estende da un confine all’altro con forza e governa
con bontà eccellente ogni cosa” (Lib. III, 12: PL 63, col. 780).
La cosiddetta prosperità dei malvagi, pertanto, si rivela menzognera (lib.
IV), e si evidenzia la natura provvidenziale dell’adversa fortuna.
Le difficoltà della vita non soltanto rivelano quanto quest’ultima sia
effimera e di breve durata, ma si dimostrano perfino utili per
individuare e mantenere gli autentici rapporti fra gli uomini. L’adversa
fortuna permette infatti di discernere i falsi amici dai veri e fa
capire che nulla è più prezioso per l’uomo di un’amicizia vera.
Accettare fatalisticamente una condizione di sofferenza è assolutamente
pericoloso, aggiunge il credente Boezio, perché “elimina alla radice la
possibilità stessa della preghiera e della speranza teologale che stanno
alla base del rapporto dell’uomo con Dio” (Lib. V, 3: PL 63, col.
842).
La perorazione finale
del De consolatione philosophiae può essere considerata una
sintesi dell’intero insegnamento che Boezio rivolge a se stesso e a
tutti coloro che si dovessero trovare nelle sue stesse condizioni.
Scrive così in carcere: “Combattete dunque i vizi, dedicatevi ad una
vita virtuosa orientata dalla speranza che spinge in alto il cuore fino
a raggiungere il cielo con le preghiere nutrite di umiltà. L’imposizione
che avete subìto può tramutarsi, qualora rifiutiate di mentire,
nell’enorme vantaggio di avere sempre davanti agli occhi il giudice
supremo che vede e sa come stanno veramente le cose” (Lib. V, 6: PL
63, col. 862). Ogni detenuto, per qualunque motivo sia finito in
carcere, intuisce quanto sia pesante questa particolare condizione
umana, soprattutto quando essa è abbrutita, come accadde a Boezio, dal
ricorso alla tortura. Particolarmente assurda è poi la condizione di
chi, ancora come Boezio che la città di Pavia riconosce e celebra nella
liturgia come martire della fede, viene torturato a morte senza alcun
altro motivo che non sia quello delle proprie convinzioni ideali,
politiche e religiose. Boezio, simbolo di un numero immenso di detenuti
ingiustamente di tutti i tempi e di tutte le latitudini, è di fatto
oggettiva porta di ingresso alla contemplazione del misterioso
Crocifisso del Golgota.
Contemporaneo di Boezio fu Marco
Aurelio Cassiodoro, un calabrese nato a Squillace verso il 485, che morì
pieno di giorni, a Vivarium intorno al 580. Anch’egli, uomo di alto
livello sociale, si dedicò alla vita politica e all’impegno culturale
come pochi altri nell’occidente romano del suo tempo. Forse gli unici
che gli potevano stare alla pari in questo suo duplice interesse furono
il già ricordato Boezio, e il futuro Papa di Roma, Gregorio Magno
(590-604). Consapevole della necessità di non lasciare svanire nella
dimenticanza tutto il patrimonio umano e umanistico, accumulato nei
secoli d’oro dell’Impero Romano, Cassiodoro collaborò generosamente, e
ai livelli più alti della responsabilità politica, con i popoli nuovi
che avevano attraversato i confini dell’Impero e si erano stanziati in
Italia. Anche lui fu modello di incontro culturale, di dialogo, di
riconciliazione. Le vicende storiche non gli permisero di realizzare i
suoi sogni politici e culturali, che miravano a creare una sintesi fra
la tradizione romano-cristiana dell’Italia e la nuova cultura gotica.
Quelle stesse vicende lo convinsero però della provvidenzialità del
movimento monastico, che si andava affermando nelle terre cristiane.
Decise di appoggiarlo dedicando ad esso tutte le sue ricchezze materiali
e le sue forze spirituali.
Concepì l’idea di affidare
proprio ai monaci il compito di recuperare, conservare e trasmettere ai
posteri l’immenso patrimonio culturale degli antichi, perché non andasse
perduto. Per questo fondò Vivarium, un cenobio in cui tutto era
organizzato in modo tale che fosse stimato come preziosissimo e
irrinunciabile il lavoro intellettuale dei monaci. Egli dispose che
anche quei monaci che non avevano una formazione intellettuale non
dovevano occuparsi solo del lavoro materiale, dell'agricoltura, ma anche
trascrivere manoscritti e così aiutare nel trasmettere la grande cultura
alle future generazioni. E questo senza nessuno scapito per l’impegno
spirituale monastico e cristiano e per l’attività caritativa verso i
poveri. Nel suo insegnamento, distribuito in varie opere, ma soprattutto
nel trattato De anima e nelle Institutiones divinarum
litterarum, la preghiera (cfr PL 69, col. 1108), nutrita
dalla Sacra Scrittura e particolarmente dalla frequentazione assidua dei
Salmi (cfr PL 69, col. 1149), ha sempre una posizione
centrale quale nutrimento necessario per tutti. Ecco, ad esempio, come
questo dottissimo calabrese introduce la sua Expositio in
Psalterium: “Respinte e abbandonate a Ravenna le sollecitazioni
della carriera politica segnata dal sapore disgustoso delle
preoccupazioni mondane, avendo goduto del Salterio, libro venuto dal
cielo come autentico miele dell’anima, mi tuffai avido come un assetato
a scrutarlo senza posa per lasciarmi permeare tutto di quella dolcezza
salutare dopo averne avuto abbastanza delle innumerevoli amarezze della
vita attiva” (PL 70, col. 10).
La ricerca di Dio,
tesa alla sua contemplazione – annota Cassiodoro -, resta lo scopo
permanente della vita monastica (cfr PL 69, col. 1107). Egli
aggiunge però che, con l’aiuto della grazia divina (cfr PL 69,
col. 1131.1142), una migliore fruizione della Parola rivelata si può
raggiungere con l’utilizzazione delle conquiste scientifiche e degli
strumenti culturali “profani” già posseduti dai Greci e dai Romani (cfr
PL 69, col. 1140). Personalmente, Cassiodoro si dedicò a studi
filosofici, teologici ed esegetici senza particolare creatività, ma
attento alle intuizioni che riconosceva valide negli altri. Leggeva con
rispetto e devozione soprattutto Girolamo ed Agostino. Di quest’ultimo
diceva: “In Agostino c’è talmente tanta ricchezza che mi sembra
impossibile trovare qualcosa che non sia già stato abbondantemente
trattato da lui” (cfr PL 70, col. 10). Citando Girolamo
invece esortava i monaci di Vivarium: “Conseguono la palma della
vittoria non soltanto coloro che lottano fino all’effusione del sangue o
che vivono nella verginità, ma anche tutti coloro che, con l’aiuto di
Dio, vincono i vizi del corpo e conservano la retta fede. Ma perché
possiate, sempre con l’aiuto di Dio, vincere più facilmente le
sollecitazioni del mondo e i suoi allettamenti, restando in esso come
pellegrini continuamente in cammino, cercate anzitutto di garantirvi
l’aiuto salutare suggerito dal primo salmo che raccomanda di meditare
notte e giorno la legge del Signore. Il nemico non troverà infatti alcun
varco per assalirvi se tutta la vostra attenzione sarà occupata da
Cristo” (De Institutione Divinarum Scripturarum, 32: PL
69, col. 1147). È un ammonimento che possiamo accogliere come valido
anche per noi. Viviamo infatti anche noi in un tempo di incontro delle
culture, di pericolo della violenza che distrugge le culture, e del
necessario impegno di trasmettere i grandi valori e di insegnare alle
nuove generazioni la via della riconciliazione e della pace. Questa via
troviamo orientandoci verso il Dio con il volto umano, il Dio rivelatosi
a noi in Cristo. |